Rumore Rosa

2006

di Enrico Casagrande e Daniela Nicolò

con Silvia Calderoni, Nicoletta Fabbri, Emanuela Villagrossi

e la collaborazione di Dany Greggio

illustrazioni Filippo Letizi

visual compositing p-bart.com

assistenza tecnica Pier Paolo Paolizzi

fonica Nico Carrieri e Roberto Pozzi

abiti Ennio Capasa per Costume National

relazioni Sandra Angelini

organizzazione e amministrazione Elisa Bartolucci e Cronopios

produzione Motus, Festival delle Colline Torinesi, Drodesera>Centrale Fies, L’arboreto di Mondaino

con il supporto tecnico-creativo di Istituto Europeo di Design di Milano, IED Moda Lab, IED Arti Visive

e il sostegno di Regione Emilia Romagna, Provincia di Rimini

©Valentina Bianchi

Rumore rosa è il termine che indica le frequenze artificiali che i tecnici del suono utilizzano per evidenziare la curva di equalizzazione ottimale in un ambiente. È così detto in contrapposizione al rumore bianco.
Nello spettacolo di Motus – che prende il titolo da questo termine – il rumore è freddo e tagliente come la scenografia glaciale che lo ospita. Il bianco è abitato da strumenti di amplificazione del suono e della voce: telefoni, microfoni ad asta, giradischi.

Strumenti di comunicazione per dialoghi che sono assenti, di cui rimangono solo frammenti di monologhi, aliti di parole, forse lacrime di sospiri. Ed è proprio con Le lacrime amare di Petra von Kant che i Motus avevano iniziato la loro indagine per la creazione di Rumore rosa, deviando, durante il percorso, a favore dell’intero universo di Fassbinder, come già accaduto in precedenza con Pasolini. E come invece accadeva nel progetto Rooms lo spazio scenico è una stanza, aperta, ma pur sempre una stanza delimitata da pannelli velati. Sullo sfondo corrono disegni fumettistici che si creano in osmosi con l’avanzamento della narrazione. Un tratto nero dà vita a fragili oggetti e lontani paesaggi: una lacerante confessione della bidimensionalità delle cose, del vuoto delle emozioni, dell’inconsistenza del mondo. Il gelido pavimento ospita tre donne che cadono e si lasciano cadere, casualmente e volontariamente. Figure femminili rubate alla cinematografia e alla teatrografia fassbinderiana, che portano sul corpo le tracce strazianti della sottomissione di Marlene, della esasperata solitudine di Petra, del masochismo isterico di Martha, della rifiutata sessualità di Elvira, della lucida maniacalità di Maria, della forzata schiavitù di Veronika. Sfaccettature che vengono interpretate con ricchezza di toni da tre attrici: l’afonia autolesionista in scarpe da ginnastica e tacchi altissimi di Silvia Calderoni, la logorrea maldestra e vivace in cappotto di Nicoletta Fabbri, la pacata eleganza in camicia da notte avorio di Emanuela Villagrossi. Figure che possono essere identificate dal differente dosaggio delle parole pronunciate o dalla violenza dei movimenti compiuti, personaggi stilizzati che mostrano il percorso di tre vite – o forse di una stessa vita – che trovano in un incidente un elemento di raccordo drammaturgico. La sensazione di dolore e solitudine penetra nella pelle nonostante la finzione, l’artificialità, la patinata perfezione di tutto ciò che l’avvolge e che ronza nelle orecchie come un rumore rosa.
presentazione a cura di Patrizia Bologna

Note di regia

Rumore e collasso del mélo

«Ci sono un sacco di ragioni per essere pessimisti, ma non considero tali i miei film. Essi si fondano sull’opinione che la rivoluzione non avviene sullo schermo del cinema, ma al di fuori, nel mondo. Quando sullo schermo io mostro alla gente il modo per cui le cose peggiorano, il mio scopo è avvertirli che così andranno le cose, se non cambieranno le loro esistenze.(…) Se un film espone abbastanza chiaramente certi meccanismi così da mostrare come funzionano, allora l’effetto finale non è pessimistico».
Rainer Werner Fassbinder

Esiste una singolare omonimia nella lingua tedesca: la parola Einstellungsignifica sia “inquadratura” in senso cinematografico, sia atteggiamento nei confronti di qualsiasi fenomeno e, per estensione, anche “giudizio” in senso morale… definizione che “inquadra” perfettamente il cinema di RWF, strumento di espressione del soggetto-autore che, nonostante le improvvisazioni e il criticismo esasperato, resta ancorato ad una concezione ancora “classica” del racconto, ereditata dal romanzo moderno… e che il post-moderno, da lì a poco, sconvolgerà…

Nella sua opera osserva uomini e cose alla luce di principi e valori, agendo per estremizzazioni e polarizzazioni: gli amori sono eccessivi e disperati, gli eroi sono quasi sempre donne, emarginati o omosessuali, l’intolleranza è quella più cieca e feroce, («che c’entra la felicità, qui stiamo parlando di rispettabilità!», si dice ne La paura mangia l’anima)… contemporaneamente è sempre attento a non idealizzare: tutte le sue vittime possono trasformarsi, e spesso lo fanno, in carnefici altrettanto ciechi e irrigiditi.

Cinismo, criticismo, gusto per la citazione e il piacere metatestuale, sono voracemente inglobati nell’insolito magma narrativo delle sue opere, dove, nonostante il sovrabbondare di intrecci e personaggi secondari, tutto fondamentalmente ruota attorno alla ossessiva dialettica dello scambio a due, con le infinite variazioni che ne conseguono (lotte, tradimenti, delusioni, sopraffazioni, lutti, pentimenti, assassini)… un universo di strategie di sentimenti inscrivibile in uno più ampio e codificato, quello del suo maestro di cinema melodrammatico, ovvero Douglas Sirk.

Si deve a lui la decisione di fare film hollywoodiani senza Hollywood, precipitando i drammi dai salotti perfetti dei family drama degli anni ’50, alla realtà blasfema dei diseredati e dei diversi… Il mélo americano classico imbastito sulla guerra dei sentimenti diventa territorio ideale e privilegiato per mettere in scena le funzioni elementari del racconto: l’amore e l’inganno, le scelte affettive sbagliate, l’usura dei sentimenti con il tempo… la paura dell’abbandono. È dunque il genere che più di altri simula l’ordine della vita,Imitation of life, appunto, la zona franca della realtà e dell’ottusità quotidiana… non spiega più di tanto, ma rappresenta gli scarti immaginari dei sentimenti, o meglio, i nei della felicità, il rimpianto della perfezione e della realizzazione… e soprattutto che legittima narrativamente l’ambivalenza e l’ambiguità, che differenzia l’amore maschile da quello femminile (il primo quasi sempre permeato di non-scelte, il secondo di abbandoni totali). A questo materiale bollente e sanguinante RWF aggiunge il moltiplicarsi delle discrasie fra poteri pubblici e poteri privati, lo scontro tra individuo e storia… fra libertà e desiderio di possedere le cose e gli altri… e su questo anche Pasolini – e noi con lui – ha costantemente insistito.

La folgorazione per Sirk è alla base del suo “einstellung” dunque: ciò che dei suoi film lo affascina è che essi sono «… descrittivi, molto raramente ci sono primi piani; (…) le luci sono le più innaturali possibili, le sensazioni profonde dello spettatore non nascono dal processo di identificazione, bensì dal montaggio e dalla musica». Già in essi dunque si è abbandonata la cosiddetta “verosimiglianza”, che raddoppia tautologicamente una cattiva realtà, per innescare un processo critico nello spettatore, aiutandolo a comprendere le cause della sofferenza: il patetico del melodramma non è più oggetto di un’immedesimazione passiva, ma luogo di intensi sentimenti di comprensione.

Sottrarsi alla percezione abituale dei fatti, alle fatali e mortifere leggi della consuetudine dello sguardo, ecco cosa “libera la testa”, ma per farlo occorre collocarsi a una certa distanza dall’evento, per meglio metterlo a fuoco. Questo “distanziamento”, questo raffreddamento della percezione va ben oltre il principio dello “straniamento” teorizzato da Bertolt Brecht…
«In Brecht vedete delle emozioni e ci riflettete sopra mentre le osservate, ma non le provate mai davvero… io faccio in modo che il pubblico senta e pensi…». (Io faccio in modo che il pubblico senta e pensi: una piccola frase che sintetizza l’essenza di ciò che abbiamo sempre tentato di fare con il nostro teatro di dubbi e capovolgimenti, ma forse solo Fassbinder c’è veramente riuscito, noi ci proviamo, ancora e ancora… ).

Ma torniamo a RWF: un genere tradizionalmente “conservatore” come il mélo, dove i devianti vengono sempre ricondotti all’ordine costituito o finiscono tragicamente, diventa strumento per rispecchiare la coscienza tragica della società contemporanea, le sue ambivalenze, e soprattutto il suo voyeurismo, amplificato da ricorrenti filtri “ottici” frapposti fra lo spettatore e il soggetto inquadrato: tutti i personaggi sono sempre incorniciati da finestre o porte, riflessi negli specchi, offuscati dalle tende o dalle ombre in movimento di lampade fantasmatiche… c’è una sorta di invadenza degli arredi che esaspera l’isolamento delle figure, rendendo la rappresentazione tutta assai “artificiosa”…

Artificiosa: questa parola è la più esatta per iniziare a rispondere alla domanda che tutti ci pongono su Rumore rosa, ovvero: «ma cos’è, di cosa tratta ???».
Potremmo cominciare dicendo cosa non è più, o cosa doveva essere ma poi non è stato: avevamo deciso di mettere in scena un vero mélo fassbinderiamo (da qui la lunga premessa): Le lacrime amare di Petra Von Kant, di farne quasi un remake, andando a costruire un interno con moquette bianca e divani eleganti… il tutto visto dall’esterno, dalle finestre della casa di Petra, quindi una scatola filtrata da vetro e veneziane, attraverso cui spiare, distanziando la storia straziante della fine di un amore e della liberazione di Marlene…

Per motivi di diritti SIAE e potere con la “P” maiuscola, ci è stato proibito di mettere in scena il testo… rabbia. Poi saggezza. Questo divieto è stato per assurdo liberatorio perchè ha fatto spostare immediatamente la prospettiva, o meglio l’inquadratura. Del resto siamo certi che Fassbinder preferirebbe i tradimenti alle celebrazioni. Abbiamo deciso di collocarci alla fine della time-line, alla fine delle Lacrime amare, alla fine di Fassbinder, del suo stesso melodramma esistenziale e di quello delle sue magnifiche attrici, dopo, post, per rappresentare non più il “drama” ma l’artificio che gli consente di esistere, di presentarsi come Vero.

Lavorando per distanziamenti e simulazioni progressive si è redatto, con le attrici, una sorta di catalogo-linguaggio comune di tutti i più ricorrenti simboli del campo melodrammatico, con l’ambiguità imbarazzante che in essi risiede: telefonate, attese, feste mal concluse, notti insonni, litigi, tradimenti, provocazioni, percosse… accompagnando ogni azione solitaria con struggenti 45 giri di un passato recente… canzoni italiane d’amore e d’abbandono… gli unici testi che inizialmente abbiamo chiesto di studiare.
Il disco che ruota su se stesso e alla fine si incanta, con l’inquietante rintocco della puntina, ha fatto il resto. Abbiamo deciso di incidere su vinile alcuni dialoghi chiave delle Lacrime amare, come traccia-memoria di un testo che non c’è più, che sopravvive solo nei ricordi di Marlene, la segretaria-serva, muta scrutatrice dei fatti… parole che ancora evocano attese-disattese. E soprattutto solitudini. Abbiamo inciso su disco anche altre sonorità: passi, telefonate, rumori di città. Tutto ciò che veniva impresso su vinile diventava automaticamente oggetto, o meglio, simulacro di qualcosa basata essenzialmente su una mancanza. Su un vuoto. E a bordo di quel vuoto abbiamo proceduto.

Siamo partiti facendo lavorare le attrici sole con l’intento successivo di incrociare le loro pseudo-storie: è stato impossibile, si sono innestati tre corto circuiti celibi, incisi separatamente, come solchi su vinile nero. Vinile nero in spazio bianco: inizialmente pensavamo ad arredi, poi più nulla, solo microfoni, neri, e un ventilatore. Il bianco del plexiglas ha compiuto una sorta di effetto “ibernante” sulle tre figure, non più personaggi ma simulazioni di essi, che non hanno sentimenti, pur dichiarando continuamente di averne: una morte degli affetti dilagata e riflessa senza veli nel pavimento-specchio.
La loro riduzione a icone-fumetto ci ha spinto ad accentuare ancor più la bidimensionalità della loro psicologia interrotta, collocando alle loro spalle scenari disegnati da un fumettista, unico elemento di continuità nella frammentazione dei sentimenti. Le zoomate, i passaggi di campo fra interni rassicuranti e oppressivi ed esterni cittadini freddi e deserti, hanno fatto il montaggio di tre schegge di vita parallele.

Nell’artificialità assoluta e nell’impossibilità contemporanea di inscenare oggi un melodramma credibile, abbiamo deciso di fare esplodere il soggetto, di rifrangerlo come su un parabrezza spaccato: l’incidente d’auto, lìinvestimento/tentato assassinio di una delle tre protagoniste del dramma sclerotizzato, (forse Karin?), diventa unico fulcro drammaturgico, unico elemento di collisione-confluenza delle tre storie. Un incidente che torna anch’esso come loop, che ruota su disco, che viene ossessivamente costruito e decostruito da una attrice, (forse Marlene?) che continuamente mette in scena la frattura insanabile fra l’immaginazione melodrammatica delle origini e la crisi dei sentimenti e degli stereotipi della messinscena. Una cesura che Motus porta impressa come tatuaggio indelebile.

Un’attrice si dirige verso un parcheggio con le chiavi d’auto in mano, (forse Petra?), dove è diretta? Ha forse deciso di uccidere… o di uccidersi? Alla costruzione mancano pezzi, lo story-board va in parte ancora disegnato, o forse è lo spettatore stesso a dover completare di senso le curve mutile della simulazione? L’attrice investita (forse Karin?) non è morta, dice di non essersi fatta niente, vuole andare via a piedi, da sola, come il bambino travolto diAmerica oggi di Altman, o il protagonista di Si salvi chi può di Jean-Luc Godard – un altro melodramma impossibile – che sull’asfalto dice «Non sento niente!».

Nel tempo ciclico di una rappresentazione collassata torna dunque l’interrogativo di Don Delillo, che dal 2000 ci perseguita: «Allora tu, sei un assassino o uno che muore?».

©Valentina Bianchi

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©Federica Giorgetti

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